“Esercizio di Libertà”

“studiare in carcere come possibilità di rinascita”

In questo ultimo periodo è emerso spesso il dibattito sul significato della libertà. Ci siamo chiesti quando siamo veramente liberi. Le domande iniziali di Pietro “Cos’è per me libertà? Posso essere libero di fronte a 8 ore di lezione?” sono diventate occasione di un lavoro più ampio. Sono state domande senza risposta ma hanno innescato una ricerca che è  partita dai testi di canzoni. Ad esempio ne “Il Suonatore Jones” di De Andrè, Libertà l’ho vista dormire /Nei campi coltivati / A cielo e denaro / A cielo ed amore /Protetta da un filo spinato” o in “La libertà” di Gaber La libertà / non è star sopra un albero / non è neanche il volo di un moscone / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione”. La riflessione non si è limitata a questo ma è stata di spunto sul tema delle carceri. Ci siamo quindi domandati: cosa significa essere liberi in carcere? E’ possibile parlare di libertà in un contesto così difficile? 

Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Antonella De Luca, docente di Matematica dell’IS V.Benini di Melegnano presso la sede Carceraria di Opera, la quale ci ha raccontato la loro esperienza provocandoci ancor di più. Antonella ha iniziato a insegnare ad Opera semplicemente aderendo ad una possibilità di lavoro. In seguito, le è stato anche affidato un ruolo all’interno dell’area pedagogica, oggi chiamata area di “rieducazione”, recupero, un luogo di ripartenza per i detenuti. Questo compito, come ci ha descritto le permette di essere in costante confronto con altre figure all’interno del carcere. 

Ada: Cosa vuol dire per te “La libertà” come cantata da Gaber?

Antonella: Non è una cosa semplice parlare di libertà e non voglio cadere in luoghi comuni. Ho iniziato a insegnare in carcere 8 anni fa, ogni anno mi chiedo se sia il caso di continuare ma è un’esperienza talmente carica di significato, di umanità che mi rispondo di sì. Ogni mio studente è un piccolo mondo di vita vissuta, di errori fatti, di illusioni, di progetti. E’ un’esperienza non facile ma c’è sempre qualcosa che mi fa restare. 

Ester: Hai mai riscontrato delle difficoltà? Perchè sei rimasta?

Antonella: Ovviamente ci sono problematiche oggettive, in quanto lavoro in un contesto particolare con regole molto strette, all’interno del quale tutto è condiviso con gli agenti. Potrebbe rappresentare un elemento limitante, ma bisogna essere consapevoli che queste regole devono esistere, sono per la tutela di tutti. Inoltre, il confronto continuo con educatori e altre figure richiama al fatto che ognuno ha il suo ruolo. Ad esempio, l’ispettore li chiama detenuti e io studenti. La visione multipla degli stessi soggetti può essere difficile, ma può diventare una ricchezza per unire punti di vista e riflessioni diverse che collaborano al progetto del reinserimento della persona in un contesto sociale, per farle recuperare un’identità nuova, cambiata.

Ada: In questo ultimo periodo è molto vivo per noi il tema regole – libertà. Nel contesto di Opera, l’attività didattica può essere un’occasione per sentirsi liberi? 

Antonella: Si, partecipare ad un’attività didattica e culturale con persone esterne può corrispondere al vivere “un piccolo spazio di libertà” nella loro reclusione. Sento più spesso la parola “evasione” che “libertà”, ma nel senso buono del termine: un libro, una lezione può dare loro la capacità di “uscire” dalla realtà che vivono quotidianamente. Non tutti però hanno la possibilità di frequentare, magari l’amministrazione penitenziaria non è favorevole ma tutti quelli presenti lo sono per scelta. All’interno dell’aula c’è un clima diverso, che nasce dal confronto con qualcosa che arriva dall’esterno. Ricordo un ragazzo che aveva disegnato un uomo sopra una pila di libri che si affacciava da un muro di cinta, come se la cultura diventasse un’occasione per scoprire se stessi e le proprie passioni. 

Ada: Hai mai incontrato qualche detenuto che si è sentito libero nel rapporto con te?

Io insegno a tutti i regimi e sono molto diversi tra loro. I giovani mi stanno più a cuore perché sono più “deboli” e spero di essere per loro una presenza che li aiuti. Ognuno di loro ha un rapporto unico con me, più facile o più difficile. Alcuni arrivano in fondo, altri si disperdono. Ma li, nessuno è considerato come un numero, vale come persona. A volte nasce un confronto con loro anche se abbiamo punti di vista diversi. Un esempio è quando dico loro che devono impegnarsi nella scuola: chiedersi perché frequentare può aiutarli ad acquisire responsabilità. Quando tornano alle loro attività spesso il rapporto tra loro rimane alla dimensione carceraria – processi, avvocati, condanne – ; nella scuola uno scopre l’altro, va oltre, è un modo di conoscersi, e anche di criticarsi, diverso. Significa mettersi in gioco, in tutti i sensi.

Come a scuola, anche i miei ragazzi si vergognano quando devono ammettere in maniera evidente davanti a tutti che hanno difficoltà, che non hanno studiato. Può essere molto faticoso perché è un riscoprirsi deboli, per uomini che magari nella loro vita precedente avevano assunto ruoli di comando, abituati a decidere per sé stessi e per gli altri. “La scuola è un’esperienza che fa male”, mi ha detto una volta un altro docente: fa male perché apre lo spazio ad una discussione e chiede di dimenticare la logica che si aveva precedentemente. Forse anche per noi prof il guadagno più grande è che la scuola chiede di re-imparare a capire l’altro, dimenticando cosa è stato prima per guardare a lui come una persona capace di riscattarsi, su cui puoi scommettere. 

Ada:  Ciò che stai descrivendo si allinea all’Articolo 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Come questo passaggio si instaura in situazioni difficili o senza attenuanti come l’ergastolo?

Antonella: La scuola è un elemento di speranza anche per chi deve compiere questa esperienza per tutta la vita, come l’ergastolo. La rieducazione è quasi più sentita nei confronti di chi non può tornare nella società, in loro c’è quasi una motivazione ancor maggiore. La didattica non diventa il mezzo per ottenere altro, ad esempio sconti della pena di favore al giudice. Ognuno, attraverso la scuola può crescere umanamente. Istruzione – lavoro – attività religiosa – contatto con i familiari sono le esperienze base per la rieducazione, come afferma il regolamento penitenziario: la didattica può fare la differenza. 

Franci: Quale speranza sostiene un detenuto che è stato condannato all’ergastolo? per me è già difficile il lockdown, non oso immaginare loro… 

Antonella: Non so cosa dia loro la forza di vivere la stessa condizione per il resto dei loro giorni. Non c’è un giudizio da parte mia perché non ho la capacità di capire i loro pensieri, ma posso comprendere la loro angoscia. E’ un percorso faticoso ma si compie solo con la speranza di un cambiamento e un attaccamento a quello che la vita può offrire loro nella situazione in cui si trovano, con la consapevolezza che il carcere sia una situazione quasi meritata, prendendo coscienza degli errori fatti. Il fattore cruciale sono le relazioni che si creano con i familiari esterni e con noi. Incontrare persone esterne aiuta loro a vedersi con occhi nuovi per crescere con un sistema di valori diversi rispetto a quelli della vita passata. Si può fare però solo con il loro contributo e con il desiderio di cambiare. Il tema non è l’ergastolo come condanna in sé, ma se lasciare una piccola luce in fondo al tunnel. Al di là della durata della pena deve essere riconosciuta la dignità di persona.

Pietro: La canzone di Gaber mi ha interrogato tantissimo. Oggi, di fronte al tuo racconto la frase  “Libertà è partecipazione” mi provoca ancora. A primo impatto si pensa che non si possa parlare di libertà all’interno delle carceri. 

Antonella: Sì, anche per me la libertà è partecipazione. A Opera libertà significa prendere parte ad iniziative per crescere, anche se non è uno spazio libero. Credo possa essere molto gratificante per loro prendere il diploma, la laurea, poter lavorare: questi elementi diventano libertà. E’ un’occasione privilegiata che dipende dal loro mettersi in gioco. 

Come ci ha detto Antonella, la sensazione che si genera inizia con un cambiamento di sguardo e un desiderio di ampiezza. Liberarsi da quello che si era precedentemente per scoprire che non si è solo quello, può far ripartire da valori nuovi per creare un’identità diversa, rinascere. Questo può rendere liberi anche in una camera di pernottamento di 2 mq. Il desiderio di continuare il lavoro non si conclude qui con quest’intervista. La sfida è scoprire come la libertà si gioca ogni giorno nelle condizioni che abbiamo davanti, che siano le limitazioni fisiche o le lezioni in università.

Si ringraziano: Antonella De Luca, Pierluigi Cassinari

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