Vivere l’ateneo



Vivere l’ateneo

Intervista al rettore Ferruccio Resta

La sera del 23 ottobre si è tenuta in Bovisa la “Sagra della Matricola”: in occasione dell’evento, il Rettore ha tenuto un discorso di apertura per accogliere personalmente tutti i partecipanti: in particolare ha augurato a tutti di poter vivere a pieno questi anni di università senza correre via appena finita la lezione, ma approfittando di tutte le opportunità che il Politecnico offre. Colpita dalle sue parole, oltre che dalla grande disponibilità dimostrata nel dedicarci un po’ del suo tempo, ho deciso di intervistare il Rettore per approfondire con lui alcuni aspetti del suo lavoro che mi interessavano particolarmente.

Nell’ascoltare le sue parole alla Sagra della Matricola, sono rimasta molto stupita dal suo interesse verso noi studenti. Cosa l’ha spinta ad accettare il nostro invito? Che interesse ha ad incontrare gli studenti e come intende il rapporto con loro all’interno del suo lavoro?

Innanzitutto mi stupisce il fatto che lei sia sorpresa. Nel senso che l’Ateneo è fatto da docenti, da personale tecnico amministrativo e da moltissimi studenti, che ne sono una parte integrante. Ho accettato l’invito perché una parte istituzionale dell’Ateneo mi invitava. Lo sento proprio come una responsabilità: esattamente come quando mi invita il Presidente della Regione Lombardia o il Sindaco. Ancora di più perché si trattava di persone che iniziano ora il loro percorso al Politecnico, le matricole: quando ti trovi davanti a qualcuno di nuovo, devi avere un’attenzione particolare, non puoi permetterti di farlo aspettare. L’ultimo motivo è perché me lo avete chiesto voi: i rappresentanti degli studenti sono per me una parte fondamentale del Governo dell’Ateneo. Governo con la G maiuscola, quello positivo, quello che si prende le responsabilità di tenere il timone dritto di un’istituzione che oggi è sempre più importante. I rappresentanti lo sanno che per me non sono rappresentanti degli studenti, ma rappresentanti dell’Ateneo. Questo è difficile perché ogni tanto tutti noi dobbiamo sforzarci di avere una visione non sul nostro interesse, ma verso l’interesse di un’istituzione che vede anche noi come parte integrante di essa.

Sono passati due anni dalla sua elezione: cosa c’è di diverso oggi rispetto al 2016, sia rispetto al lavoro che sta portando avanti sia nel modo in cui concepisce il suo ruolo? La realtà ha rispettato le sue aspettative?

C’era sicuramente più paura: la responsabilità fa paura e non c’è niente da fare, se qualcuno ti dice qualcosa di diverso secondo me sbaglia. La paura è un sentimento che ti mantiene vicino alla realtà: un sentimento umano che, in qualche maniera, ti costringe ad essere attento e non trascurare le cose più importanti. Anche se oggi una parte di questa paura è passata, rimane la difficoltà. In questo ufficio arriva gente con le richieste più disparate. Per tanti anni ho fatto il Direttore di Dipartimento e il Delegato del Rettore: quando non riuscivo a rispondere, mi voltavo e c’era sempre qualcuno a cui passare il testimone. Ecco oggi invece questo qualcuno non c’è e questa è una grande responsabilità, a volte ancora una difficoltà, soprattutto quella di dare una risposta che vada al di là del contesto: va data una risposta nel quadro generale, mentre spesso la richiesta è particolare, specifica. Questa, per esempio, è una difficoltà che è rimasta. Fortunatamente, posso contare su una buona squadra al mio fianco. In questi due anni però – io in questo sono un progettista, un ingegnere – c’era un programma ben chiaro, espresso nei famosi cinque verbi [Unire, Attrarre, Abitare, Anticipare, Funzionare], che descrivevano un po’ la nostra impostazione, un piano strategico che abbiamo sintetizzato così. In quei cinque verbi c’è tutto: dove vogliamo andare, 10 perché ci vogliamo andare e come ci andremo con le misure specifiche. Fra qualche mese diremo proprio a che punto siamo, lo stiamo misurando esattamente. Saremo al giro di boa: i primi tre anni. Si dovrà completare il piano strategico e l’anno prossimo sarà una parte molto interessante, perché riprogetteremo il secondo triennio. Quindi, in sintesi, quello che è successo in questi due anni è che abbiamo messo a terra un progetto e lo stiamo monitorando attentamente, l’anno prossimo dobbiamo completarlo e arrivare così al secondo triennio.

Ci stiamo muovendo sempre più verso una direzione di internazionalizzazione, che ha dettato molti cambiamenti all’interno dell’Ateneo, a partire dalla didattica in lingua inglese. Come questo influisce sulla visione che il mondo ha del Politecnico e come l’internazionalizzazione può essere una risorsa per uno studente italiano che frequenta il Politecnico?

La domanda pone il problema da un punto di vista corretto: oggi c’è un’equazione “internalizzazione uguale estero” che va smantellata. Essere internazionali non vuol dire stare all’estero, al di là delle Alpi. Si può essere internazionali stando a Milano, in Italia, nel nostro Paese. Naturalmente dobbiamo essere legati ad un contesto internazionale e quindi avere le relazioni con il mondo globale, confrontarci con i migliori Atenei perché lo studente sceglie il meglio, non gli interessa che sia a Milano, a Monaco, a Parigi o a Londra. Dobbiamo quindi misurarci con queste realtà. Dobbiamo avere un contesto internazionale e questo vuol dire avere i miglior docenti: se questi ci sono qui, bene, se no dovremo andare a cercarli. Vuol dire avere i migliori studenti, i migliori laboratori, le migliori attrezzature, acquistandole qui o dall’altra parte dell’oceano. Quindi essere in un contesto cosmopolita vuol dire dare la possibilità a quarantamila studenti di respirare un’aria internazionale in Italia. Questo è l’obiettivo, quindi è corretto parlare di che cosa vuol dire per uno studente italiano vivere un contesto internazionale: non tutti si possono permettere di fare la Magistrale all’estero, non tutti si possono permettere di prendersi del tempo per studiare le lingue, o fare un master o una summer school. Siamo un’università statale, per cui abbiamo il dovere di fornire un percorso di studi estremamente di qualità (su questo possiamo essere i più severi possibili), ma che sia accessibile a tutti. E se oggi uno studente ha bisogno, oltre che di una preparazione di qualità, di una esperienza internazionale, noi gliela dobbiamo fornire. È questo il percorso che stiamo facendo e, affinché sia possibile, bisogna avere una classe internazionale, in cui la lingua inglese è uno strumento per comunicare, soprattutto all’inizio, quando questo contesto internazionale deve essere creato.

Il Politecnico è una realtà unica che unisce tre Scuole apparentemente molto diverse: Architettura, Design e Ingegneria. Perché storicamente si è scelto di unirle in un unico organismo? Che valore possono portare l’una all’altra? Quali realtà esistono all’interno dell’Ateneo di interazione e cooperazione tra architetti, designers e ingegneri?

Innanzitutto non si è propriamente scelto di unirle in un unico organismo: è stata un’evoluzione del nostro Ateneo. Le tre Scuole non sono così diverse come si pensa e le diversità comunque sono un valore. Ci unisce la caratteristica di essere tutti progettisti: chi progetta oggetti di design, chi una costruzione, chi una casa. Il progetto è il DNA che accomuna tutti gli studenti del Politecnico: l’informatico, l’architetto, l’urbanista. Da questo punto di vista c’è veramente qualcosa che ci accomuna e ci unisce nella volontà di essere parte di un unico Ateneo. Le decisioni infatti vengono prese nel rispetto e dell’interesse di tutti. Anche la gestione delle Scuole segue un filo comune, seppur prendendo atto delle differenze, per esempio nei modelli didattici. Come sempre, le differenze non devono spaventare: dobbiamo capirle e valorizzarle, così si ottiene un grosso arricchimento; se fossimo tutti uguali sarebbe una tragedia. Ci sono opportunità di confronto, attività di ricerca che vedono coinvolti designer con ingegneri meccanici, gestionali, chimici o informatici. Perché oggi un prodotto di design è anche un prodotto di tecnologia, fatto di materiali. Ci sono poi progetti che combinano l’urbanistica con gli aspetti tecnologici: le smart cities, con tutta la conseguente gestione dei dati. Oggi infatti, non è possibile trovare delle soluzioni adeguate alle sfide che il mondo ci pone, se non si mettono insieme delle competenze che abbiano una risposta disciplinare e scientifica, ma che tengano conto anche del contesto. Quindi essere una Scuola che mette insieme tutto questo, ha un grande valore. Sicuramente vale per l’ingegneria, che sarebbe troppo arida se non avesse a fianco l’architettura e il design, che danno rispettivamente l’approccio delle scienze umanistiche e la creatività. Ma vale anche viceversa per le scuole di architettura e design, che nel mondo sono incardinate nelle scuole di arte e quindi mal riescono nell’interpretare le tecnologie. Dal punto di vista dello studente, l’Alta Scuola Politecnica è un esempio di come questa cooperazione sia possibile. Ci sono progetti assolutamente trasversali alle Scuole e lo studente si può trovare in un team insieme ad un ingegnere, un architetto o un designer. Adesso stiamo lavorando anche sul tema delle borse di dottorato interdipartimentali, in modo che il dottorando sia una figura trasversale fra l’una e l’altra Scuola. Si potrebbe e si dovrebbe andare anche verso una maggiore trasversalità in termini di Laurea Magistrale. Quello che stiamo facendo, per esempio con programmi di innovazione della didattica, è promuovere corsi il più possibile interdisciplinari. La didattica innovativa può voler dire per un architetto mettersi alla prova con qualcosa di tecnologico e per un ingegnere frequentare corsi attinenti all’etica. Questa opportunità di scambio quindi c’è a livello di ricerca, a livello di studenti dell’Alta Scuola e di dottorandi. Adesso la sfida è portarla il più possibile alla comunità intera.

E dunque quali sono i frutti che si stanno raccogliendo? Ovvero ci sono esperienze positive di laureati che ora lavorano e rimangono in contatto con l’università?

La comunità dei nostri Alumni è oggi sempre più estesa: abbiamo oltre centocinquantamila persone (nostri laureati) che sono contattate. Non tutte partecipano alla vita dell’Ateneo, però trentamila partecipano attivamente, attraverso una donazione o attraverso risorse di tempo, di impegno via dicendo. L’ultima reunion dei nostri Alumni è stata ai primi di novembre: milletrecento persone al teatro Dal Verme per confrontarsi sul delicato tema del fallimento. Il fatto che un Ateneo come il Politecnico si fermi a parlare del valore del fallimento è importante. Sul palco c’erano sei nostri ex-alunni: da chi si era laureato nel ‘58 a chi pochi anni fa e ancora naviga nei primi anni della propria impresa. Tutti a parlare di come vivere il fallimento, di quali sono gli stati d’animo. Ecco, io credo che per quel ragazzo e per tutti i neolaureati che erano lì, sentire i differenti punti di vista sia stato veramente un momento formativo. Stasera [21/11/208 n.d.r.] incontrerò in Aula Magna un gruppo di ex-allievi, The Circle, che investono in borse di studio per studenti. La cosa particolare è che questi studenti vengono affiancati direttamente da chi ha donato la borsa di studio: i ragazzi che la ricevono possono direttamente rivolgersi a questi donatori, in qualsiasi parte del mondo per chiedere dei consigli. Sono tutti professionisti di alto livello, come l’amministratore delegato dell’Enel: avere il suo numero di cellulare per chiedergli cosa pensa di un certo tema secondo me ha un grande valore. La comunità degli Alumni è una comunità che abbiamo riavviato, perché c’era un’associazione di ex-allievi che non funzionava abbastanza bene. L’abbiamo riavviata solo nel 2012, quindi è abbastanza giovane, ma i risultati sono importanti. Quello che emerge è che c’è un grande orgoglio nell’essere contattati e un fortissimo desiderio di partecipare.

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