Una scelta editoriale

Intervista a Carlo Pastore

Photo by Mattia Buffoli

Carlo Pastore dal 2005 è direttore artistico del MI AMI Festival: uno dei più importanti festival di musica italiana, che si tiene ogni anno nel mese di giugno a Milano. Ha curato e condotto per nove stagioni il programma Babylon su Rai Radio 2.

In merito alla chiusura del tuo programma radiofonico hai detto: “Babylon non è mai stata una questione di genere, piuttosto di talento e possibilità, di visione e prospettiva, locale e globale.”

Partendo da questo, cosa vuol dire secondo te fare la differenza?

Mi è stata data una possibilità, che era uno spazio nel palinsesto, e in quel caso il mio fare la differenza era fare qualcosa che servisse non solo a me come professionista, cosa che spesso accade nel mercato dell’intrattenimento. Fare qualcosa che servisse non soltanto all’azienda e al mercato (fare audience, fare numeri, fare profitto) ma fare queste due cose e anche una terza, quello che una volta si sarebbe definito servizio pubblico: semplicemente è stato fare una scelta editoriale netta, precisa e diversa da tutto il resto. Decidere di raccontare quella che è la musica contemporanea, con una maniera diversa dal panorama radiofonico attuale. Questo era il senso del discorso che facevo: mettere sullo stesso piano, nella stessa playlist, un artista italiano con la stessa dignità di Tyler The Creator o di Kanye West. Per definizione Babylon si occupava di musica perlopiù nuova, e quindi lontana dall’AirPlay, anche se poi era destinata ad arrivarci. Questo era il nostro spirito, quello di scandagliare, raccontare le nuove forme del pop, capire le dinamiche che poi avrebbero portato ai nuovi meccanismi di larga diffusione, era questo il nostro gioco di laboratorio.

Qual è stata l’esigenza che ha portato alla creazione di un festival come il MI AMI?

Il MI AMI è un racconto dell’energia che c’è nella musica in Italia oggi. È un racconto che viene scritto giorno dopo giorno. Io ogni cazzo di minuto penso a questo festival, nella ricerca che viene fatta. Tutta questa grande mole di informazione che ascolto precede un momento, che ti assicuro essere estremamente paranoico, di sintesi. Questa poi la sintetizzo in una scaletta delle scalette. È un festival in cui io ragiono mutuando un immagine letta in un libro di Perec. Ragiono un po’ come quelli che inventano i puzzle. Andando al MI AMI, vedi delle tessere e le devi ricomporre, però uno non pensa mai alla malattia mentale di quello che si è messo a tagliare le tessere in quella maniera per fartele ricomporre, quindi io sto più dalla parte di quella malattia mentale, quando lo faccio, ho la sicurezza che ognuno se la vive come vuole là dentro. Quello che noi creiamo è una raccolta di spunti, una canalizzazione dell’energia, un’attitudine, un approccio, un momentum al cui interno poi ognuno può farsi le proprie strade. Ci sono quattro palchi e in ognuno di questi c’è qualcosa di decisivo, di importante. Ogni palco e ogni momento potrebbe essere una rivelazione per qualcuno. Dipende però da che sensibilità hai, che cosa stai cercando in quel momento, che cosa vuoi. C’è una cornice attorno alla quale noi ci divertiamo a costruire delle cose, sempre e comunque cercando di raccontare la qualità della musica, ma anche i valori. Il MI AMI dev’essere un posto in cui stai bene, in cui tornato indietro ti viene voglia di fare un festival, iniziare una band, leggere un libro, ascoltare ottanta dischi e sposarti, una cosa da cui torni in maniera propulsiva. Questo dev’essere l’obiettivo: far partire i dischi, i tour, le carriere, l’ascolto di un artista, l’estate. Un momento in cui si accende il fuoco. Questo è il nostro disegno. All’interno di questo ci sono dei percorsi musicali che non sono casuali perché sono frutto di uno studio e di lavoro. Quei percorsi musicali possono portare a delle rivelazioni com’è successo nel tuo caso, e chissà per quanti altri. Alla fine è la storia della musica italiana.

Pensi che il MI AMI abbia un valore educativo?

Non abbiamo un ruolo educativo in senso stretto, perché non penso che il festival sia il contesto per fare istruzione. Abbiamo un ruolo anche culturale, questo si. Nella misura in cui la cultura non è la quantità di informazioni che accumuli, ma è la visione del mondo che hai, complessiva, legata sia a quello che hai letto, quello che hai visto, a come lo approcci, a come lo interpreti, quindi agli strumenti che hai per approcciare, interpretare le cose. Però al contempo dobbiamo essere sereni nell’accettare che facciamo intrattenimento. Perché comunque la gente viene per divertirsi al festival. È un po’ questo strano equilibrio tra cultura e intrattenimento, non c’è un ruolo puramente culturale, perché? Perché noi cerchiamo un’occasione di vita, non un’occasione di studio. Questa è una differenza sostanziale. Questo non vuol dire che divertendosi non si possa imparare qualcosa.

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