Il bisogno di raccontare la realtà



Il bisogno di raccontare la realtà

La ricerca del lato umano
nella fotografia di Werner Bischof

Immaginate di vivere nella perfetta Svizzera negli anni della guerra, di avere la fortuna di essere esonerati dalla chiamata militare, di passare la vostra giovinezza a imparare a fotografare oggetti belli in uno sfondo altrettanto bello, pulito, bianco e improvvisamente guardare fuori dalla finestra. Che cosa c’è fuori? La guerra, la fame, la disperazione. Cosa fate? Nato il 26 aprile 1916 a Zurigo, Werner Bischof sperimenta la fotografia sin da piccolo grazie alla professione del padre. Gli anni della sua formazione lo vedono impegnato dal 1932 al 1936 nel corso di Fotografia alla Scuola di Arti Applicate di Zurigo dove entra in contatto con il fotografo Hans Finsler, esponente della corrente della Nuova Oggettività, movimento nato alla fine della Prima guerra mondiale che alle illusioni sentimentali – tipiche dell’espressionismo – preferiva la freddezza e la lucidità descrittiva. Seguono anni di libera professione, di carriera nel mondo della fotografia still life e della moda. Un giorno però decide di abbandonare tutto, il suo lavoro, gli off camera da piccolo Man Ray e parte per il primo dei suoi lunghi viaggi saltando in sella ad una bicicletta: è il 5 settembre 1945. Confiderà alla famiglia la sua insaziabile necessità della documentazione, della volontà irrequieta di inabissarsi nel mare aperto della storia lasciando la sua città, la terraferma. A loro scrive: “Perdonatemi, non potrò più fotografare belle scarpe e tessuti preziosi. Sono un essere umano.” Così iniziano i tanti viaggi di Werner Bischof in giro per il mondo, alla ricerca del contatto diretto con un mondo ormai distrutto ma con l’uguale forza di risollevarsi e iniziare a costruire qualcosa di nuovo.

Sente la necessità di immergersi tra le persone, non può certo rimanere nella sua perfetta Svizzera. Il suo bisogno è quella di documentare la realtà cruda del suo tempo scendendo dalla torre d’avorio di fotografie patinate e oggetti ben inquadrati. È il volto dell’uomo sofferente che diventa il nucleo centrale della sua fotografia. Ed è quello che decide di perseguire fino alla morte avvenuta prematuramente precipitando con una Jeep in un burrone dalle parti di Cuzco. Entra nella società Magnum nel 1949, dopo solo due anni dalla sua nascita ma è come se fosse tra i fondatori. La fotografia è per lui un incontrollabile desiderio di raccontare il mondo e buttarsi nella mischia, nel mare aperto. Il totale disinteresse nel cercare lo scoop o la foto di copertina, il desiderio di raccontare storie è ciò che condivide con il resto della società Magnum, con scatti apparentemente meno importanti rispetto ad altri fotografi ma che non appena venivano messi in sequenza e diventavano storia, mostravano la loro potenza narrativa.

Comincia i suoi viaggi dai Paesi sconfitti, Germania, Ungheria e giunge anche in Italia dove conosce quella che sarebbe poi diventata sua moglie, Rosellina. Documenta il Bihar indiano schiacciato dalla carestia, il Giappone fermo in una stampa xilografica, l’America vincitrice che definisce “brutale ed egoista” e l’Italia. È proprio qui che lo sguardo di Werner Bischof si piega a un ritratto quasi ironico rendendosi conto invece – a differenza di altre città – che tra le strade di Milano o di Napoli è viva la resistenza umana di persone che passano oltre la storia e che hanno voglia di ricominciare a vivere. Fino all’ultimo fece resistenza al ruolo che la storia gli aveva assegnato, essere un grande fotoreporter. Volle sempre restare in disparte, a distanza dal mondo della comunicazione selvaggia e della corsa allo scoop, dalle iene sul campo di battaglia, come le definiva lui. La fotografia di Werner Bischof ha una cura particolare verso tutti i soggetti dei suoi ritratti. Le sue fotografie raccontano di volti, soprattuto di bambini. Sono il soggetto privilegiato per il fotografo svizzero, li racconta non attraverso una visione banale, alla ricerca di un sentimentalismo neorealista ma regalando a ognuno dignità, tutti sono portatori di una storia importante. E’ riuscito a raccontare il mondo intero con uno sguardo unico, lasciando a tutti (e non solo ai fotografi di oggi) una grande eredità morale.

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