La città che cambia

Dialogo tra architetti

Illustrazione di Bianca Maria Fratin

“Tutto è architettura. Tutti viviamo a contatto con l’architettura, motivo per cui questa fa la differenza nella vita di ogni persona.” Questa provocazione, ricevuta a lezione, non poteva lasciarci indifferenti. Ha aperto in noi, progettisti del futuro, moltissime questioni: stiamo assistendo a grandi interventi nella città di Milano, vissuti più o meno direttamente, ci chiediamo quali siano le dinamiche alla base di questa progettazione e perché, parallelamente, ci si sta concentrando sulla riqualificazione urbana delle periferie.

Abbiamo deciso di porre le nostre domande a due architetti che svolgono attività molto diverse tra loro dentro la città di Milano.

Andreas Kipar, noto architetto paesaggista. Di origini tedesche, insegna al Politecnico di Milano e dirige lo studio LAND, specializzato in opere paesaggistiche.

Ferdinando Zanzottera, docente e ricercatore presso il Politecnico di Milano, si occupa prevalentemente di storia dell’arte, dell’architettura e di restauro; lavora nell’ambito della conservazione e valorizzazione dei beni culturali.

Quali sono le nuove considerazioni  che un architetto deve avere in mente  quando progetta?

A.K.: Siamo in un periodo storico in cui le narrazioni che hanno tenuto finora sembrano aver perduto la loro valenza, per cui le considerazioni che un architetto deve avere in mente sono fondamentalmente lo spazio che sta per creare e per chi lo sta creando, sempre relazionandosi con ciò che esiste.

La modernità, con la pretesa della tabula rasa, ormai è finita, oggi quando interveniamo siamo quasi archeologi interpreti della preesistenza e ogni pezzo di nuova architettura dovrebbe almeno rigenerare il tessuto che lo circonda. Così l’architettura può assumere il ruolo di “catalizzatrice” e intervenire nei punti più nevralgici affinché il nuovo possa valorizzare il vecchio e insieme possano scrivere un nuovo paesaggio urbano che sia anche umano.

F.Z.: Noi siamo immersi nell’architettura e l’architettura fa la differenza, sia quando essa è isolata, sia quando è inserita all’interno dell’ambiente urbano. È ovvio che chi progetta deve sempre avere in mente che sta operando per la felicità degli uomini e deve rammentare le ragioni per le quali lavora: l’architettura non è solo una questione tecnica, ma soprattutto una questione morale. Oggi siamo tentati dal pensare che la tecnologia basti a risolvere i problemi, ma in questo modo di pensare presenta due grandi rischi: quello di applicare la tecnologia in maniera automatica come panacea di tutti i problemi rischiando, talvolta, di distruggere l’identità di un luogo per un idealismo tecnocratico. L’architettura non è la risultanza di una genialità isolata, ma il frutto di un processo culturale, profondamente legata al tessuto sociale nel quale è inserita. È sempre una coralità e questa coralità ha un valore. Noi siamo abituati a guardare il paesaggio, sia urbano che tradizionale, considerandolo da un punto di vista unicamente estetico. Il paesaggio, però, non è solo un godimento estetico, ma, prima di tutto, è cultura e noi siamo chiamati a recuperare questa identità, e difenderla perché appartenente al vissuto umano. Se saltiamo questo processo e lo riduciamo solo a tecnica ed estetica, mi viene da dire, che sarebbe meglio che cambiassimo lavoro.

Ha senso continuare a progettare nuove architetture o è meglio rinnovare  le pre-esitenti?

A.K.: Ogni società e ogni generazione ha il diritto e anche il dovere di esprimersi attraverso la propria creatività, le proprie esigenze e le proprie dimensioni di vita che richiedono forme abitative e forme architettoniche su misura. Questo è il punto di partenza, i nuovi interventi possono e devono inserirsi nei tessuti vecchi anche per valorizzare le architetture esistenti, per stimolare una nuova identità che vive tra il passato ed il futuro, formando questa contemporaneità che fa la differenza.

F.Z.: In questo momento il tema del recupero ci deve interrogare sicuramente, ma l’elemento sul quale dobbiamo lavorare, come professionisti e come università, è quello di dare un giudizio di valore sull’esistente. Ci sono delle pessime architetture che dovremmo lottare per distruggere e ci sono delle piccole architetture a cui dovremmo legarci per conservarle. Il giudizio di valore non può essere automatico, ma è prodotto dallo studio e dalla conoscenza approfondita del contesto e della sua storia.

Perché si sta dando importanza  alla periferia?

A.K.: Personalmente continuo a pensare che le periferie nascono più nella nostra testa e nelle nostre considerazioni che nella realtà. È difficile immaginare di vivere in periferia, ognuno vive al centro del proprio tessuto sociale, la periferia è sempre un concetto che esprime potere, potere da un punto di vista centrale, che mi sembra ormai un concetto del tutto superato.Proprio al di là dei centri consolidati invece le sperimentazioni, le nuove forme abitative, l’insieme tra la natura e la cultura possono dare spazio a qualcosa di completamente nuovo. È da lì che parte la rigenerazione: quando c’è spazio e quando c’è la consapevolezza di non stare in periferia, ma di diventare centro di se stesso, della propria vita di riferimento. Aggiungo una considerazione non conclusiva, ma aggiuntiva: la differenza di oggi sta nella autenticità nel nostro vivere la città e i dintorni, autenticità nel misurarsi con il quotidiano, prendersi cura del nostro habitat. Noi stessi siamo componenti dell’ambiente, questa consapevolezza comincia a fare la differenza, sapere che le nostre azioni di oggi possono determinare i risultati del futuro, e quindi assumersi la responsabilità non solo per se stessi, ma per ogni futura generazione.

F.Z.: Penso che giustamente si stia lavorando molto sull’architettura, ma parallelamente occorre creare una cultura forte legata a questi temi. Pensate ai grandi centri all’interno delle città che si stanno costruendo adesso: l’aggregazione va benissimo ma non è ancora identità. Bisogna aspirare affinché questi luoghi diventino effettivamente spazi di identità sociale e culturale. Indipendentemente dalla propria posizione politica, bisogna essere coscienti del fatto che siamo parte della storia, e che persino negarlo significa prendere una posizione per il futuro sviluppo della città. È vero che quando si progetta ci si porta dietro un bagaglio di conoscenze, esperienze e relazioni che non si possono dimenticare, ma il problema è che a volte questo vissuto diventa il marchio che si vuole mantenere a tutti i costi. L’affermazione della propria personalità attraverso l’architettura, che è legittimo, talvolta rischia di andare a discapito dell’architettura stessa all’interno del suo contesto. Quello che voglio dire è che abbiamo una responsabilità come uomini e come professionisti, di cui dobbiamo essere coscienti. La nostra unica preoccupazione dovrebbe essere quella di imparare, di fare sul serio quello che stiamo facendo, sia quando siamo chiamati a ristrutturare Notre Dame, sia quando entriamo in classe per fare lezione. Pensate quando si opera in un quartiere e si progetta una piazza: ci confrontiamo con la storia e la vita di centinaia di persone. Ognuno in quello che fa sta costruendo la storia, dentro la contingenza che vive: l’unico modo vero per operare è di essere esigenti con se stessi e con gli altri.

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