Testo 1:

  1.  

La terra era avvolta nella nebbia.

Sui pali dell’alta tensione che si stagliavano ai lati della strada si riflettevano le luci dei fari delle automobili.

Non era piovuto, ma all’alba la terra era diventata umida, e quando il semaforo segnalò il divieto, sull’asfalto bagnato apparve una vaga macchia rossastra.

Già a molti chilometri di distanza si sentiva il respiro del lager: in quella direzione convergevano sempre più fitti pali, strade e ferrovie.

Era uno spazio tutto riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo autunnale, la nebbia.

Le sirene lontane lanciarono un urlo flebile e prolungato.

La strada si addossava alla ferrovia, e una colonna di autocarri carichi di sacchi di cemento corse per un po’ quasi alla stessa velocità dell’interminabile treno merci.

I conducenti in cappotto militare non guardavano i vagoni e le macchie diafane dei volti dei ferrovieri.

Dalla nebbia emerse il recinto del lager, le file di reticolati tesi tra i pilastri di cemento armato.

Le baracche allineate formavano strade larghe, rettilinee.

La loro uniformità rivelava la disumanità dell’enorme luogo di detenzione.

Fra milioni di isbe russe, non ce ne sono né ce ne saranno mai due perfettamente identiche.

Tutto ciò che vive è irripetibile.

E’ impensabile che due uomini, due cespugli di rose selvatiche siano identici…

La vita si spegne là dove la costrizione si sforza di annullare ogni peculiarità dei singoli.

(…)

 

2.

Nel lager tedesco Michajl Sidorovic Mostovskoj, per la prima volta dopo il secondo congresso dell’Internazionale comunista, ebbe modo di mettere a profitto la sua conoscenza delle lingue estere.

Prima della guerra, vivendo a Leningrado, non gli era capitato spesso di parlare con degli stranieri.

Ora gli tornarono alla mente gli anni d’esilio passati a Londra e in Svizzera; là, in compagnia dei rivoluzionari, aveva parlato, discusso, cantato in molte lingue europee.

Il suo vicino di tavolaccio, un prete italiano di nome Guardi, spiegò a Mostovskoj che nel lager vivevano uomini di cinquantasei differenti nazionalità.

Il destino, il colore della pelle, il vestito, l’andatura strascicata, la minestra a base di navone e surrogato di fecola che i reclusi russi chiamavano “occhio di pesce”, tutto questo era identico per le decine di migliaia di abitanti delle baracche.

Per i superiori, gli uomini nel lager si distinguevano solo dal numero e dalla tinta della striscia di stoffa cucita sulla giubba: rossa per i politici, nera per i sabotatori, verde per i ladri e gli assassini.

In quella babele di lingue, gli uomini non si capivano l’un l’altro, ma erano legati da un’unica sorte.

Specialisti di fisica molecolare o di antichi manoscritti giacevano sui medesimi pancacci accanto a contadini italiani e pastori croati incapaci di scrivere il proprio nome.

Quello che un tempo ordinava la colazione al cuoco e inquietava la governante per la sua inappetenza, e quello che mangiava soltanto baccalà, ora andavano insieme al lavoro battendo le suole di legno e spiavano ansiosamente l’arrivo dei “Kosttrger”, i cucinieri coi bidoni di cibo, i “kostrigi” come li chiamavano i prigionieri russi.

I destini di tutti, pur nella loro varietà, finivano per assomigliarsi.

Li legasse la nostalgia del giardinetto lungo una polverosa strada italiana, del cupo rombo del mare del Nord, o il ricordo dell’abat-jour arancione nella casa di un responsabile della direzione alla periferia di Bobrujsk, per tutti i prigionieri, dal primo all’ultimo, il passato era meraviglioso.

Quanto più dura era stata la vita per uno di essi prima del lager, con tanto più ardore mentiva.

Tale menzogna non serviva a scopi pratici, era piuttosto un inno alla libertà: un uomo fuori del lager non può non essere felice…

Prima della guerra questo campo era denominato campo per criminali politici.

Il nazionalsocialismo aveva creato un nuovo tipo di criminale politico: il criminale senza crimini.

Molti cittadini finivano nel lager solo per avere espresso osservazioni critiche sul regime hitleriano chiacchierando con gli amici, per una barzelletta di contenuto politico.

Non avevano diffuso manifestini, non avevano preso parte a riunioni segrete.

Li si accusava del fatto che avrebbero potuto farlo.

(…)

Si sarebbe potuto credere che per controllare quella massa di prigionieri fossero necessarie innumerevoli schiere di sorveglianti, milioni di carcerieri.

Ma non era così.

Per intere settimane nelle baracche non si vedeva un’ uniforme delle S.S.

Nelle città-lager erano gli stessi detenuti ad assumersi il compito della sorveglianza poliziesca.

Erano essi stessi a vegliare sul rispetto del regolamento interno nelle baracche, a controllare che nei loro pentoloni finissero solo patate marce e gelate, perché quelle buone e sane dovevano essere selezionate per gli approvvigionamenti del fronte.

I detenuti erano medici negli ospedali, batteriologi nei laboratori dei lager, portieri che spazzavano i marciapiedi dei campi, erano gli ingegneri che davano la luce e il calore alle baracche, che riparavano e sostituivano pezzi di macchinari.

I “kapò”, la crudele ed efficiente polizia del lager, portavano sulla manica destra una fascia gialla; tenevano sotto il loro controllo l’intera vita del campo, dagli avvenimenti più comuni alle faccende intime che avevano luogo durante la notte sui pancacci.

(…)

Particolarmente funereo parve a Michajl Sidorovic che il nazismo non arrivasse nel lager col monocolo, con arroganza d’attore di quart’ordine, che non fosse estraneo al popolo.

Esso, invece, viveva nei lager con disinvoltura, non isolato dal popolo minuto; scherzava in modo popolaresco e i suoi giochi divertivano; era plebeo e si comportava in modo semplice, conosceva perfettamente la lingua, l’animo e la mente di quelli che aveva privati della libertà.

Testo 2: cap 18 della prima parte

  1.  

Vitja, sono sicura che la mia lettera arriverà fino a te, benché io mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato del ghetto ebraico.

Non riceverò mai la tua risposta, non ci sarò più.

Voglio che tu conosca i miei ultimi giorni, con questo pensiero mi è più facile uscire dalla vita.

E’ difficile capire la gente per davvero, Vitja…

Il 7 giugno i tedeschi hanno fatto irruzione in città.

(…)

All’improvviso vidi un carro armato e qualcuno gridò: I tedeschi hanno sfondato! Io dissi: Non seminate il panico.

La vigilia ero andata dal segretario del Consiglio cittadino, gli avevo chiesto della partenza, e lui si era arrabbiato: E’ presto per parlare di questo, non abbiamo ancora steso le liste.

In breve, ora c’erano i tedeschi.

(…)

All’inizio fui terrorizzata, capii che non ti avrei più rivisto, e desideravo terribilmente guardarti ancora una volta, baciare la tua fronte, gli occhi, ma poi pensai che per fortuna tu non sei in pericolo.

Verso mattina mi addormentai, e quando mi svegliai provai un’angoscia terribile.

Ero nella mia camera, nel mio letto, ma mi sentivo in un paese straniero, perduta, sola.

Quella stessa mattina mi venne ricordata una cosa che avevo dimenticato durante gli anni del potere sovietico, che sono ebrea.

I tedeschi attraversavano sui camion la città e urlavano: “Juden Kaputt!”.

Nel frattempo me l’avevano ricordato i vicini.

(…)

In quel periodo, Viten’ka, avevano riaperto il nostro Policlinico, avevano licenziato me e un altro medico ebreo.

Io andai a chiedere i soldi per quel mese di lavoro, ma il nuovo amministratore mi disse: Che vi paghi Stalin per quello che avete guadagnato sotto il potere sovietico, scrivetegli a Mosca.

L’infermiera Marusja mi abbracciò lamentandosi sottovoce: Signore, mio Dio, cosa sarà di voi, cosa sarà di tutti voi.

E il dottor Tkacev mi strinse la mano.

Io non so che cosa ci sia di più penoso, se la gioia maligna o gli sguardi compassionevoli con i quali si guarda un gatto rognoso agonizzante.

Non avrei mai pensato di provare niente di simile.

Molta gente mi stupì.

E non solo gente ignorante, incattivita, analfabeta.

Ecco un vecchio pedagogo, un pensionato di 75 anni, che mi chiedeva sempre di te, mi diceva di mandarti i suoi saluti, sosteneva è il nostro orgoglio.

In quei giorni maledetti, incontrandomi, per non salutarmi si voltava dall’altra parte.

Poi mi riferirono che durante l’assemblea che aveva avuto luogo nella sede del comando militare, aveva dichiarato: l’aria è diventata più limpida, ora non puzza di aglio.

A cosa gli serviva questo – sono parole che sporcano.

E nella stessa assemblea quante calunnie furono scagliate contro gli ebrei…

Ma, Viten’ka, certo non tutti parteciparono a questa assemblea.

Molti si rifiutarono.

E sai, nella mia esperienza dell’epoca zarista l’antisemitismo era legato al patriottismo di bassa lega di gente che faceva parte della Unione dell’Arcangelo San Michele.

Ma qui ho visto che quelli che proclamano la liberazione della Russia dagli ebrei, si umiliano davanti ai tedeschi, si comportano come dei miserabili lacchè, pronti a vendere la patria per trenta denari d’argento.

E questa gente miserabile che viene dai sobborghi, si impossessa degli appartamenti, di coperte, vestiti; simile gente, di certo, uccideva i medici all’epoca dei tumulti per il colera.

E poi c’è la gente apatica, che dice di sì a ogni malvagità, perché non si supponga che sono in disaccordo col potere.

Senza tregua corrono da me conoscenti con notizie terribili, tutti con gli occhi allucinati, gente in delirio.

E’ comparsa una nuova espressione: Nascondere le cose.

Sembra sempre che il nascondiglio del vicino sia migliore; mi ricorda un gioco.

Quasi subito decretarono il trasferimento degli ebrei al ghetto, col permesso di portare con sé quindici chili di bagaglio a testa.

Sui muri delle case erano affissi i comunicati su carta giallastra: “Tutti gli abitanti sono invitati a trasferirsi nel quartiere della Città Vecchia, non più tardi delle sei di sera del 15 giugno 1941”.

Per chi non si fosse trasferito, la fucilazione.

E così, Viten’ka, mi sono preparata anch’io.

Ho preso con me il cuscino, un po’ di biancheria, la tazza che una volta mi hai regalato, un cucchiaio, un coltello, due piatti.

Basta così poco a un uomo.

Ho preso anche qualche strumento.

Ho preso le tue lettere, le fotografie di mia madre e dello zio David, e quella dove siete tu e il papà, un piccolo volume di Pushkin, “Lettres de mon moulin”, un libretto di Maupassant dove c’è “Une vie”, un vocabolarietto e il libro di Cechov che contiene “Una storia noiosa” e “Il vescovo”; ed ecco, il mio cesto era già pieno.

Quante lettere ti ho scritto sotto questo tetto, quante notti ho passato in lacrime, te lo confesso, per la mia solitudine.

Ho detto addio alla casa, al giardinetto, mi sono seduta qualche minuto sotto l’albero, ho salutato i vicini.

Com’è strana certa gente.

Due donne davanti a me hanno cominciato a discutere su chi di loro si sarebbe presa le sedie, chi la scrivania, e mentre le salutavo, piangevano tutte e due.

Ho pregato la vicina Becan’ko che se dopo la guerra tu venissi a cercarmi, ti racconti tutti i particolari, e me l’ha promesso.

Mi ha colpito il cagnetto da cortile Tobik, che l’ultimo giorno si strusciava contro di me in modo tutto particolare.

Se tornerai, dagli da mangiare, per la tenerezza riservata a questa vecchia ebrea.

Mentre mi accingevo al viaggio e mi preoccupavo di come avrei potuto trascinare il mio cesto fino alla Città Vecchia, inaspettatamente giunse il mio paziente Sciukin, un uomo burbero, che credevo insensibile.

Si prese l’incarico di portare le mie cose, mi diede trecento rubli, e disse che sarebbe venuto una volta alla settimana al campo a portarmi del pane.

Lavora in una tipografia, non l’hanno preso al fronte per una malattia degli occhi.

Prima della guerra lo curavo io, e se mi avessero proposto di elencare della gente con un’anima pulita, compassionevole, avrei fatto una decina di nomi, ma non il suo.

Sai, Viten’ka, dopo la sua comparsa sono tornata a sentirmi una persona, significa che non solo un cane da cortile si può rivolgere a me in modo umano.

(…)

Cosa dirti delle persone? Mi hanno stupito nel bene e nel male.

Sono insolitamente diverse, benché tutti vivano un destino identico. Immagina la gente sotto un temporale; la maggioranza cerca di ripararsi dall’acquazzone, ma questo non significa che tutte le persone siano uguali.

Ognuno si ripara a modo suo.

Il dottor Sperling è sicuro che le persecuzioni degli ebrei sono temporanee, dureranno fino al termine della guerra.

Di gente come lui non ce n’è poca, e ho modo di constatare che quanto più una persona è ottimista tanto più è meschina, egoista.

Se durante l’ora dei pasti sopraggiunge qualcuno, Alja e Fanny Borisovna rapidamente nascondono il cibo.

Gli Sperling sono ben disposti verso di me, tanto più che mangio poco e porto a casa più cibo di quello che consumo.

Ma ho deciso di andarmene via; mi sono antipatici.

Sto cercandomi un angolino.

Quanto più in una persona è profonda la tristezza, tanto meno spera di sopravvivere, tanto più è generosa, buona, migliore.

I poveri, gli stagnini, i sarti condannati alla morte sono più nobili, più generosi e sensati di quelli che si ingegnano a procacciarsi ogni tipo di alimento.

Maestre giovanissime, un poveraccio (il vecchio maestro e giocatore di scacchi Spilberg), silenziosi bibliotecari, l’ingegnere Rejvic, debole come un bambino, che medita di far saltare il ghetto con granate fatte in casa; che gente meravigliosa, poco pratica, cara, triste e buona! Qui constato che la speranza non è quasi mai legata con la ragione, è priva di senso e penso che sia stata generata dall’istinto.

La gente, Vitja, vive come se avesse davanti a sé lunghi anni.

Non si riesce a capire se sia stupido o giusto, ma è semplicemente così.

E io mi sono sottomessa a questa legge.

(…)

E’ così, tuttavia passa il tempo e le persone continuano a vivere.

Recentemente s’è perfino celebrato un matrimonio.

Intanto le notizie si moltiplicano.

Ora, sospirando di felicità, un vicino comunica che le nostre truppe sono passate all’attacco e i tedeschi sono in fuga.

All’improvviso si diffonde la voce che il governo sovietico e Churchill hanno dato ai tedeschi un ultimatum e Hitler ha vietato di uccidere gli ebrei.

Ora dicono che verranno effettuati scambi tra ebrei e prigionieri tedeschi.

In sostanza, da nessuna parte ci sono tante speranze come nel ghetto.

Il mondo è pieno di avvenimenti, e tutti gli avvenimenti, il loro significato, il motivo di fondo, è che bisogna salvare gli ebrei.

Che ricchezza di speranze! La fonte di questa fiducia è una sola: l’istinto di sopravvivenza, che senza nessuna logica si contrappone alla terribile necessità di uccidere tutti senza lasciare la minima traccia.

Io stessa stento a credere che tutti noi siamo condannati, che aspettiamo soltanto l’esecuzione.

(…)

 

Testo 4:

50.

L’uomo muore e passa dal mondo della libertà al regno della schiavitù.

La vita è la libertà e perciò morire è l’annientamento progressivo della libertà; per prima cosa si allenta la coscienza e poi si offusca; i processi di vita in un organismo la cui coscienza sia svanita sussistono per qualche tempo, la circolazione del sangue, la respirazione e il metabolismo continuano ad effettuarsi.

Ma è un’inevitabile ritirata verso la schiavitù: la coscienza si è spenta, il fuoco della libertà s’è spento.

Le stelle nel cielo notturno si sono smorzate, la Via Lattea è scomparsa, s’è spento il sole, si sono spente milioni di foglie, anche il vento è cessato, i fiori hanno perso colore e profumo, è sparito il pane, l’acqua, il freddo e il caldo dell’aria.

L’universo che esisteva nell’uomo ha cessato d’esistere.

Questo universo assomigliava straordinariamente all’altro, l’unico, che esiste al di fuori degli uomini.

Questo universo assomigliava straordinariamente a quello che continua a riflettersi in milioni di teste vive.

Ma questo universo era particolare per il fatto che in esso c’era qualcosa che distingueva il rumore del suo oceano, il profumo dei suoi fiori, lo stormire delle sue foglie, le sfumature dei suoi graniti, le tristezze dei suoi campi d’autunno, da ciascuno di quelli che sono esistiti ed esistono in ogni individuo.

La libertà consiste nell’irripetibilità, nella unicità dell’anima di ogni singola vita.

Il riflesso dell’universo nella coscienza di un uomo è il fondamento della potenza umana, ma la vita si trasforma in felicità, libertà, valore supremo, solo egli l’uomo esiste come mondo, persona mai e da nessuno ripetibile nei tempi che non hanno fine.

Solo a questa condizione possiamo provare la felicità della libertà, quando riconosciamo negli altri quello che abbiamo riconosciuto in noi stessi.

 

Testo 5

61.

Aleksandra Vladimirovna decise di raggiungere Kujbyscev, insieme a Stepan Fdorovic e Vera, per fermarsi qualche tempo da Evgenija Nikolaevna.

Un giorno prima della partenza chiese in prestito la macchina al nuovo direttore per fare un giro in città e guardare le rovine della sua casa.

Durante il percorso chiedeva all’autista: E questo cos’è? Cosa c’era prima? Prima quando? ritorceva irritato l’autista.

Nelle rovine della città venivano alla luce, come per stratificazione, tre tipi di esistenza: quello dell’anteguerra, quello di guerra, del periodo delle battaglie, e l’attuale, in cui la vita cercava nuovamente il suo alveo di pace.

La casa che una volta aveva ospitato una tintoria e una piccola sartoria che eseguiva riparazioni, aveva le finestre ostruite dalle macerie, e durante le battaglie, attraverso le feritoie praticate nella muratura in laterizi, avevano fatto fuoco le mitragliatrici della divisione tedesca granatieri.

Adesso, sempre attraverso le feritoie, veniva distribuito il pane alle donne che aspettavano in fila.

Tra le rovine erano spuntati rifugi e interrati in cui si erano installati soldati, stati maggiori, operatori radio; vi venivano compilati rapporti, caricati i fucili, servivano da magazzini per i nastri delle mitragliatrici.

Ora dai camini usciva il fumo della pace, accanto ai rifugi era stesa la biancheria ad asciugare e giocavano i bambini.

Dalla guerra era sorto un mondo: cencioso, povero, quasi altrettanto duro che la guerra.

Dei prigionieri lavoravano a sgombrare dalle macerie le arterie principali della città.

Davanti ai negozi alimentari improvvisati negli scantinati c’era gente in coda con dei recipienti.

I prigionieri rumeni frugavano pigramente tra le pietre e disseppellivano i cadaveri.

Non si vedevano militari in giro, solo di rado qualche marinaio, e i conducenti spiegavano che la flotta del Volga era rimasta a Stalingrado per disinnescare le mine.

In molti posti erano accatastati tavole di legno nuove, travi, sacchi di cemento.

Cominciava ad affluire materiale per la ricostruzione.

Qua e là venivano riasfaltate le strade.

Una donna che spingeva una carriola carica di masserizie camminava lungo una piazza vuota e due bambini l’aiutavano tirando due corde legate alle stanghe.

Tutti volevano tornare a casa, a Stalingrado, ma Aleksandra Vladimirovna era arrivata e ripartiva.

(…)

Per queste strade si era decisa la sorte della guerra.

L’esito di questa battaglia aveva stabilito la carta del mondo postbellico, la misura della grandezza di Stalin e dello spaventoso potere di Adolf Hitler.

Per novanta giorni il Cremlino e Berchtesgaden vissero, respirarono, delirarono alla parola Stalingrado.

Era giocoforza che Stalingrado definisse la filosofia della Storia, i sistemi sociali del futuro.

L’ombra della sorte del mondo nascose agli occhi degli uomini la città che aveva un tempo conosciuto una vita normale e ordinaria.

L’anziana donna, avvicinandosi alla sua casa, si trovava inconsapevolmente sotto l’influenza delle forze che si erano manifestate a Stalingrado, dove lei aveva lavorato, allevato il nipote, scritto lettere alle figlie, si era ammalata d’influenza, si era comprata le scarpe…

Chiese al conducente di fermarsi e scese dalla macchina.

Orientandosi a fatica nella via deserta, ancora invasa di macerie, gettava occhiate alle rovine e riconosceva a stento i resti delle case vicine alla sua.

La facciata che dava sulla strada era ancora in piedi e attraverso le finestre aperte Aleksandra Vladimirovna intravvide con i suoi vecchi occhi presbiti le pareti del suo appartamento, riconobbe l’azzurro e il verde ora sbiaditi.

Ma le stanze non avevano più pavimenti, né soffitto, non c’erano scale su cui salire.

Le tracce dell’incendio si erano impresse sulla muratura e in molti punti i mattoni erano scheggiati.

Con forza brutale che le sconvolse l’animo, ella percepì l’intera sua vita: le sue figlie, il suo infelice figlio, il nipote Serza, le sue perdite irreparabili, la sua testa grigia, senza più un tetto.

Una donna debole, malata, con il cappotto sdrucito, le scarpe logore, fissava le rovine della casa.

Che cosa l’aspettava? A settant’anni ancora non lo sapeva. “La vita è davanti” pensò.

Cosa riservava a coloro che amava? Non lo sapeva.

Il cielo primaverile la guardava attraverso le finestre vuote della sua casa.

La vita dei suoi cari era priva di armonia, imbrogliata, caotica e indistinta, percorsa di dubbi, di dolore, di errori.

Come vivrà Ljudmila? Si comporrà il disaccordo nella sua famiglia? Cos’è successo a Serza? E’ ancora vivo? Com’è difficile la vita per Viktor Strum.

Cosa ne sarà di Vera e Stepan Fdorovic? Sarà in grado Stepan di ricostruirsi una nuova vita, troverà pace? Quale strada attende Nadja, intelligente, buona e anche cattiva? E Vera? Cederà alla solitudine, al bisogno, alle ristrettezze della vita di ogni giorno? Cosa accadrà a Zenja? Seguirà Krymov in Siberia, andrà a finire anche lei in lager, morirà come è morto Dmitrij? Lo Stato vorrà perdonare a Serza di essere figlio di un padre e una madre morti innocenti in campo di concentramento? Perché il loro destino è così ingarbugliato, confuso? Ma quelli che erano morti, ammazzati, giustiziati, mantenevano il loro legame con i vivi.

Aleksandra Vladimirovna ricordava i loro sorrisi, gli scherzi, il riso, i loro occhi tristi e sgomenti, la loro disperazione e la loro speranza.

Abbracciandola, Mitja le aveva detto: Non è niente, mamma, l’importante è che tu non ti preoccupi per me.

Anche lì nel lager c’è brava gente.

Sonja Levinton, capelli corvini, il labbro superiore coperto di peluria, giovane, combattiva e allegra, declama dei versi.

Ecco Anja Strum, pallida, eternamente triste, intelligente e ironica.

Tolja mangiava in maniera sgraziata, con avidità, i tagliolini col formaggio grattugiato, e l’irritava vederlo grufolare; non voleva mai dare una mano a Ljudmila: Non si riesce nemmeno a farsi portare un bicchiere d’acqua…

Va bene, va bene, lo porto, ma perché non lo chiedi a Nad’ka? Maruscien’ka! Zenja prendeva sempre in giro i tuoi sermoni da maestrina, tu insegnavi, insegnavi a Stepan l’ortodossia… sei affogata nel Volga con il bambino di Slava Berezkin, con la vecchia Varvara Aleksandrovna.

Mi spieghi, Michajl Sidorovic.

Oh, Signore, cosa può spiegare ormai lui…

Scombussolati, sempre pieni di problemi, di segreto dolore, di dubbi, tutti anelavano alla felicità.

Alcuni venivano a trovarla, altri le scrivevano lettere, e in lei persisteva sempre uno strano sentimento: la famiglia era grande e unita, ma in un angolino del cuore trovava posto la sensazione della propria solitudine.

Ed eccola, una vecchia ormai, che vive in perpetua attesa del meglio, e crede, e teme il male, è piena di ansia per la vita degli uomini, e non distingue chi vive da chi è morto, sta qui e guarda le rovine della sua casa, ammira il cielo primaverile senza neanche accorgersi di ammirarlo, sta qui e si chiede perché il futuro di coloro che ama è così intricato, perché la loro vita è costellata di tanti errori, e non si accorge che in questa confusione, in questa nebbia, dolore e groviglio c’è già risposta, e chiarezza, e speranza; e che lei sa, capisce con tutta l’anima il significato della vita che è stato dato di vivere a lei e ai suoi cari, e benché né lei né nessuno di loro possa dire cosa li aspetti, e benché essi sappiano che in un tempo così terribile l’uomo non è più artefice della propria felicità, e che il destino del mondo ha ricevuto il diritto di graziare o punire, portare alla gloria o coprire di fango, e trasformare in polvere di lager, tuttavia non è concesso al destino del mondo e alla Storia, alla mano irosa dello Stato, alla gloria, o all’infamia della lotta di trasformare coloro che hanno nome di uomini.

Qualunque cosa li attenda, la celebrità per la loro fatica o la solitudine, la disperazione e la miseria, il lager e la condanna, essi vivranno da uomini, e da uomini moriranno, come quelli che sono periti hanno saputo fare; proprio in questo consiste per l’eternità l’amara vittoria umana su tutte le forze maestose e disumane che ci sono state e ci saranno nel mondo.

(…)